Sono oggi veramente
lieto di ospitare nel blog un interessantissimo intervento dell’amico Carlo
Crescitelli su “multiculturalismo e transculturalismo”. Io e Carlo ci
conosciamo dai tempi del liceo, ma negli ultimi tempi ci siamo resi conto,
vorrei dire con sollievo dato che di questi tempi non è cosa tanto comune, di
condividere non solo analoghe preoccupazioni, ma anche, in buona parte, un
medesimo punto di vista. Cosa tutt’altro che scontata, dicevo, specie
considerando che questo punto di vista, a quanto pare, è lontano, diverso e per
molti versi anche opposto a quello più diffuso nell’ambiente politico-culturale
nel quale io e Carlo ci siamo sicuramente formati e abbiamo anche vissuto,
talora “militato”, nella nostra ormai non tanto breve vita. Dopo episodici ma
frequenti scambi di battute sul social network, Carlo ha preso la bella
iniziativa di mandarmi questa sua riflessione, che pubblico nel blog, non certo
come semplice gesto di amicizia e di ospitalità (stavo per dire
“accoglienza”!), e nemmeno soltanto perché è di per sé acuta e interessante, ma
soprattutto perché ha il merito di intervenire nel merito dell’analisi che da
qualche tempo mi sforzo di condurre. Altre osservazioni che ricevo, infatti, al
di là di ogni valutazione e senza assolutamente pretendere che siano meno
sensate o meno vere delle mie, restano purtroppo esterne al discorso che cerco
di svolgere, di fatto non ne tengono conto, e in tal modo chiudono la
possibilità di un vero confronto. Al contrario, Carlo parte proprio dalla
questione che a me pare centrale: come si gestisce il rapporto, che appare
sempre più oggettivamente conflittuale, fra culture o civiltà diverse, nel
nostro mondo occidentale? Carlo rigetta, come me, con argomentazioni a mio
avviso profondamente giuste e anche garbatamente e piacevolmente ironiche, la
mistificazione del “multiculturalismo” e propone un diverso modello di analisi
che è quello del “transculturalismo”. Nei prossimi giorni, cercherò, a mia
volta, di operare qualche riflessione su questo punto, sperando che sia
l’inizio di un confronto a cui spero che anche altre voci vorranno unirsi.
Per il momento,
consegno e raccomando ai lettori del blog l’intervento di Carlo Crescitelli.
Altro che
multiculturalismo…
è alle porte il
transculturalismo
di Carlo Crescitelli *
Il recente, massiccio
ingresso nel nostro quotidiano, di popolazioni,
culture e problematiche fino a poco tempo fa lontane e non solo geograficamente distanti dalle nostre, pone
sempre più pressante il problema di un corretto ed equilibrato rapporto con esse.
Si invoca
da più parti il “multiculturalismo” come risposta, quando questo approccio
mostra invece sempre più la sua obsolescenza e i suoi limiti. Vediamo come e perché.
Anzitutto, che cosa vuol dire esattamente
“multiculturale”? Si intendono ad oggi come azioni multiculturali tutte quegli
atteggiamenti e comportamenti tesi ad
apprezzare ed includere all’interno dei nostri circuiti di relazione nuove filosofie esistenziali, stili di vita
ed eventi appartenenti a differenti
patrimoni etnici. Questo tipo di mentalità, aperta e ricettiva per
eccellenza, è classicamente appannaggio
delle fasce socialmente agiate, istruite e progressiste delle nostre
società, quale naturale risultato delle loro articolate, variate e complesse
esperienze familiari, di lavoro, di viaggio etc. Facciamo qualche esempio:
potremmo pensare a giovani manager che
mangiano sushi, ascoltano reggae, arredano feng shui e via dicendo.
Ovviamente il più delle volte si tratta di versioni
edulcorate e trendizzate rispetto al modello culturale di riferimento, e
dunque snaturate al punto di renderle da esso irriconoscibili, ma proprio per questo frullabili e appetibili da
parte del soggetto che ne fruisce. Per il quale tutto deve finire in un elegante calderone di tendenze che
esprime il suo stesso sofisticato modo di essere.
Ben diverso il discorso per le classi collocate alla base della
piramide sociale, che invece sperimentano duramente in prima persona le
tensioni e le frizioni del duro e pericoloso rapporto senza filtri con la vera realtà di tali differenti culture,
e con tutti i quotidiani affanni e
rischi che essa comporta: ostilità, violenze, risse, furti, stupri etc, in
un contesto in cui il razzismo
pregiudiziale generato dall’ignoranza e impreparazione al rapporto si nutre
da ambo le parti delle ripetute esperienze
dei fallimenti nella gestione del suo quotidiano sviluppo.
Perché il
povero, tanto il nostro come quello giunto di là dal mare, è per sua stessa definizione
“transculturale” anziché “multiculturale”. Prendo a prestito questa
espressione da un bello studio di storia medievale di Hubert Houben, che la utilizza per connotare l’approccio delle
tribù barbariche alle prese con il loro percorso di integrazione all’interno
delle fatiscenti strutture del caduto e decaduto impero romano d’occidente.
Questi popoli, infatti, si erano convertiti al
cristianesimo in modalità sincretica con i loro antichi culti, parlavano latino
quale patente diplomatica, e utilizzavano alcuni schemi giuridici romanistici
combinandoli con il diritto consuetudinario di stampo sassone; insomma si
riferivano a se stessi come attori del
disegno divino al pari della nobiltà di sangue latina con la quale si
interfacciavano, ma che li considerava ovviamente alla stregua di ridicoli,
imbarazzanti, minacciosi parvenu.
Alla lunga però questo loro modo di essere,
transculturale per eccellenza in quanto punto
di arrivo unitario e opportunistico di diversi stimoli riassunti e unificati
anziché semplice rispettosa sommatoria di linguaggi alieni e incompatibili, ha
generato quella che oggi noi definiamo identità
europea, ben distinta dalle glorie e dalle reminiscenze della Roma antica,
eppur con essa in qualche modo inscindibilmente fusa, a definire la precisa
immagine storica dell’Europa contemporanea.
E’ precisamente quello che succederà con i
migranti di oggi, quando l’approfondirsi del loro veloce processo di
inserimento nelle nostre società europee le avrà cambiate per sempre,
trasformandole in qualcosa di diverso, un
futuro ibrido all’interno del quale non troveranno certo spazio snobistiche
valenze multiculturali, ma un corpus unico e coerente che interpreterà in
maniera estremamente reattiva le contigenze del prossimo domani.
Meglio o peggio di ora e di ieri?
Probabilmente se lo chiedevano allo stesso modo anche tutti i nostalgici
custodi del blasone di Roma antica; fatto sta che ci troviamo, oggi come
allora, di fronte ad un mondo che muore
ed uno che nasce, e che non può più essere classificato sulla base di
modelli statici riferiti alle sue singole componenti etniche, ma deve essere
anzi visto come la loro magmatica convergente
evoluzione, e si badi bene non sempre e non necessariamente in direzione
illuminata. Perché un medioevo,
checché se ne dica, non è altro che un
momento di transizione da un’epoca all’altra, e se lo si immagina buio è
solo perché le nostre superate categorie
non riescono a illuminarlo e a metterlo a fuoco a sufficienza.
Se sono preoccupato?
Certo che sì, ma non solo per le obiettive, incalzanti minacce alle nostre
conquiste e convenzioni. Lo sono anche e soprattutto per la miopia per non dire
cecità con la quale le nostre classi
dirigenti barattano secoli di progresso in cambio di generiche posizioni
antirazziste di facciata, le quali poi in realtà non fanno che favorire e accelerare
l’iter di transculturalizzazione che le spazzerà via, dopo di averle
strumentalmente utilizzate per accedere ai processi decisionali.
Cupio dissolvi.
Lo scriveva in qualche modo già Paolo di Tarso, meglio e dopo di lui
Tertulliano, e, data la situazione, possiamo oggi ben dirlo anche noi. Il mondo
di allora in qualche modo è sopravvissuto mutando profondamente pelle, e noi
faremo lo stesso. Ma intanto però lasciateci almeno il sacrosanto diritto di
rimpiangere l’età d’oro cha andiamo di giorno in giorno perdendo. E che Dio ce la mandi buona.
*
Dottore di ricerca in Filosofia e teoria giuridica, sociale e politica
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