venerdì 11 novembre 2016

NOI, I “DEPLORABLES”




Progressisti sull’orlo di una crisi di nervi: ecco il titolo più scontato, ma esatto, per descrivere le reazioni di tutto un mondo liberal e di sedicente e autoproclamata sinistra dopo il Trump triumphs (è il titolo con il quale il “New York Times” ha incominciato a elaborare la propria solenne figuraccia). Un mondo che si era costruito questa rappresentazione della sfida per le Presidenziali: da una parte, una candidata progressista, tollerante, “inclusiva”, competente – certo per alcuni troppo moderata e quindi avrebbero preferito l’autoproclamatosi socialista Sanders; dall’altra, una caricatura vivente, un irresponsabile, un “inadeguato”, razzista, xenofobo, sessista, addirittura fascista e persino antisemita (a dispetto della figlia prediletta Ivanka, sua vice nell’impero economico, sposata a un ebreo ortodosso e lei stessa, a quanto pare, convertita all’ebraismo, a dispetto anche delle sue dichiarazioni filo-israeliane). La partita sarebbe stata tra una sinistra moderata, ma pur sempre sinistra, e la destra più pericolosa; questo almeno pensavano coloro il cui pensiero politico si riduce ad appiccicare poche, convenzionali etichette adesive a personaggi e fenomeni. Trump, certo, avrebbe potuto raccogliere un po’ di consensi, soprattutto quelli dei maschi bianchi poco istruiti, esacerbati dalla crisi, incapaci di leggerne le cause e quindi portati a scegliersi come bersagli gli ispanici, i musulmani, insomma quelli più poveri di loro; i maschi bianchi, ignoranti, sessisti e razzisti come lui, i piccoli Trump del Midwest e del Sud; il “white trash”, come i radical-chic spocchiosi chiamano questa categoria di statunitensi, senza che poi nessuno li accusi di razzismo e intolleranza. Ma la Clinton, da parte sua, avrebbe avuto un plebiscito di voti tra i neri, i latinos, le donne, che mai e poi mai avrebbero potuto votare Trump. Ergo, il risultato era segnato.
La metamorfosi di certi volti e di certe espressioni, durante la lunga notte televisiva del 9 novembre, man mano che giungevano i risultati dall’Ohio, dalla Florida, dal North Carolina, dal Michigan, dal Wisconsin, dalla Pennsylvania, è stato uno spettacolo tanto entusiasmante da rendere inutili i thermos di caffè (confesso che mi ero perfino munito di una tavoletta di cioccolato fondente al caffè arabica, una roba quasi da radical-chic, ahimè…)
Diamine – sembravano pensare i liberal de noantri– ma quanti maschi bianchi e analfabeti ci sono in questa dannatissima America? Invece di approfittarne per guarire dalla “trumpofobia”, per provare a fare una sana autocritica, rispettando il voto popolare e cercando di abbozzarne una qualche analisi decente, hanno continuato sulla stessa catastrofica linea. Un vertice di comicità è stato raggiunto da uno dei  commentatori che, sondaggi alla mano, si era preparato ad esultare per la intangibile vittoria di Hillary; per costui, a cose fatte, la notizia del giorno non sembrava essere la vittoria di Trump, ma la sua prossima, scontata, certissima sconfitta fra quattro anni: “Come valuta questo risultato?”, gli chiedevano dallo studio, “Penso che Trump non potrà mai ottenere il secondo mandato…” Un genio.
Nelle ore successive, tutta una teoria di analisti politici, improvvisati o di lungo corso, da Andy Luotto a Furio Colombo, tutta una schiera di personaggi che al massimo nella loro vita si saranno candidati, e senza successo, ad amministratori del proprio condominio, si sono ostinati a spiegarci che aveva prevalso il voto dei meno colti, la pancia contro il cervello, pretendendo pure di dare lezioni di democrazia agli americani…Certo, hanno dovuto tener conto del fatto che quella barzelletta vivente era inopinatamente diventato il Presidente della massima potenza mondiale, ma non gli è stato difficile aggiustare il tiro: hanno potuto attingere al vasto repertorio sedimentatosi in un ventennio di antiberlusconismo di maniera e così li abbiamo visti con la bava alla bocca vomitare epiteti tipo: “è un imbroglione, un corrotto, un evasore fiscale, un personaggio volgare”. Ah, se almeno la Casa Bianca fosse sotto la giurisdizione della procura di Milano, sembravano pensare… Si sono detti sicuri che però Trump avrà vita breve e lo condanneranno le sue “cene eleganti”, sicché inciamperà in qualche nipote di Mubarak, magari incontrata sul lettone di Putin…Inutile ricordare a simili menti ottuse che con questi sofisticati argomenti e questi efficacissimi metodi di lotta politica il fenomeno Berlusconi è durato un ventennio. Trump potrà durare solo quattro anni, ma se la candidatura da opporgli sarà quella di cui si comincia a parlare in questi giorni, ossia Michelle Obama, allora ha serie possibilità di vincere al lascia o raddoppia della Casa Bianca e restarci 8 anni. Noto, en passant, che questi liberal difensori della dignità delle donne contro il maniaco sessista sembra che non riescano a pensare a una donna candidato che non sia “la moglie di”. Una forma di sessismo mascherato, direi,
Lasciamoli perdere, per ora, e proviamo invece a interpretare la scelta del popolo americano e la vittoria per molti inaspettata di Trump. 
Il primo dato decisivo è che Trump ha conservato gli stati tradizionalmente repubblicani. Non era scontato, visto che se il personaggio non può certo essere considerato un outsider in assoluto, lo è tuttavia nel partito repubblicano. Il Texas, ad esempio, lo ha tenuto agevolmente nonostante l’ostilità dei Bush. E ha trionfato, letteralmente trionfato, in tutti gli stati della “Bible belt” e tra gli “evangelical”, che non sono i protestanti delle chiese e delle denominazioni storiche - orientati non massicciamente ma comunque prevalentemente verso la Clinton (metodista, si dice) - ma sono gli evangelici delle chiese libere o pentecostali e dei cristiani “re-born” (come George W. Bush).
Qui si è rivelato un altro catastrofico equivoco dei progressisti nostrani che, a dispetto delle loro pretese di superiorità intellettuale, sono profondamente ignoranti quando si tratta dell’elemento cristiano che è fondante della società americana e continua ad essere decisivo in un paese che resta molto lontano da una “secolarizzazione” di tipo europeo (la quale ha raggiunto solo la fascia sociale medio-alta del New England, delle grandi città della East Coast o della California). Hanno creduto che Trump, per il suo “sessismo”, per la sua vita coniugale così movimentata, avrebbe perduto consensi tra questi elettori. E invece ne ha ricevuti più di tutti i candidati repubblicani recenti, raggiungendo i livelli di George W. Bush. 

E il “puritanesimo” di questa America dove è mai finito, si sono chiesti sconcertati i nostri ignorantissimi progressisti? Purtroppo, essi scambiano la mentalità puritana, che è una cosa molto seria da Cromwell ai Padri fondatori degli USA, e il costume di vita certamente severo di questi evangelical, con quel moralismo bigotto da strapazzo, che caratterizza invece loro stessi, i progressisti nostrani; un moralismo mascherato dietro la tolleranza liberal (tolleranza per chi la pensa come loro, non per chi la pensa diversamente che viene subito bollato con marchio d’infamia), un moralismo che è quello del politically correct, dell’ossessione per l’islamofobia, di certo post-femminismo alla Boldrini, dei gay pride, e che quindi ha idoli e demoni talora rovesciati rispetto a quelli tradizionali, ma è pur sempre schietto, bigottissimo moralismo piccolo-borghese.
Certo, il candidato ideale di queste chiese e di questi cittadini evangelici era Cruz e quello di ripiego sarebbe stato Rubio. Alla fine hanno però accettato Trump, accontentandosi dei segnali che egli ha mandato loro (tra cui l’adesione alla chiesa presbiteriana e le parole di rammarico per il famoso video “sessista” di alcuni anni orsono, ma soprattutto la scelta di Pence, come suo vice, un conservative che rappresenta una garanzia per gli evangelical). Trump non è stato certo accolto come uno di loro – come invece era accaduto al “cristiano rinato” George W. Bush - ma non ha ricevuto alcun anatema moralistico. 

Non si capisce questo atteggiamento se non si intende correttamente l’autentico spirito protestante, che certamente riconosce e condanna il peccato, ma non il peccatore – tutti lo siamo nell’ottica calvinista – purché egli si riconosca e si confessi come tale e dia qualche segno tangibile di essere sulla lunga, difficile e tormentata strada della “santificazione” (il termine in un paese cattolico-controriformistico come il nostro suscita, però, altri catastrofici equivoci e anche quello di “conversione” viene frainteso, dunque parliamo pure di una vita parzialmente rinnovata secondo un costume più cristiano). Chi fornisce questi segni, magari venendo da una vita “dissoluta”, è visto se possibile con favore ancora più grande rispetto a chi – in modo autentico o no – si sia sempre mostrato un buon cristiano; e fu questo il caso del già citato George W. Bush, ex-alcolista. Il puritanesimo non chiede al credente una vita sessuale integerrima – anche se certo auspica una vita sessuale “ordinata” – e il termine puritano non ha nulla a che fare, né sul piano etimologico e della sua origine storica (“puritano” nel Cinquecento era chi voleva “purificare” la chiesa anglicana dai residui “papisti”, ossia cattolici), né sul piano semantico sostanziale, con la “pruderie sessuale” – ma chiede piuttosto una coerenza di fondo tra ciò che si pensa, ciò che si dice e ciò che si fa: per questo, Trump che ammette di aver trovato il modo per pagare meno tasse possibili in modo da risollevare le sue imprese non suscita alcun problema ed anzi viene apprezzato dai “puritani” d’America (mentre i moralisti di casa nostra lo vorrebbero in galera come evasore fiscale, facendo finta di non sapere che se avesse infranto qualche legge in materia fiscale in galera negli USA ci finirebbe senz’altro, perché gli USA su questo non scherzano affatto); essi considerano invece gravissimo l’atteggiamento della Clinton che ha cercato di nascondere l’uso di server privati per le mail che mandava e riceveva come Segretario di Stato.
Certamente, gli ambienti evangelical chiedono di essere rassicurati su questioni come l’aborto, i matrimoni gay e le teorie gender (ricordiamo la recente e grottesca imposizione dei gabinetti “gender”) ed è dunque assai difficile che possano mai votare per un democratico politicamente corretto. Ma anche questo è sfuggito ai sondaggisti, professionali o improvvisati.

Il secondo dato decisivo nella vittoria di Trump è questo: egli è riuscito a strappare alla Clinton una serie di stati tradizionalmente o tendenzialmente democratici. Questi stati sono quelli della cosiddetta “rust belt” (“cintura della ruggine), gli stati del Nord-Est, della regione dei grandi laghi e del Mid-West settentrionale, gli stati delle grandi industrie fordiste e delle miniere, con tutto il relativo indotto, realtà ormai da tempo in declino economico. Trump non solo ha tenuto la West Virginia e si è aggiudicato l’Ohio – da oltre un secolo stato cruciale nelle elezioni presidenziali – ma ha sorprendentemente prevalso non in uno soltanto (era questo il timore della Clinton) ma addirittura in tre importantissimi “swing states” (stati in bilico) di quest’area: Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. E questo è il paradosso della rappresentazione di maniera che lo ha accompagnato: la Clinton, candidata moderatamente di “sinistra” viene appoggiata dai mercati finanziari e dall’establishment anche economico, ma non viene votata dai “colletti blu”, dagli operai – e dai disoccupati, i sottoccupati, i lavoratori precari - della “rust belt”, i quali invece votano Trump. Allora o la worker class è diventata fascista e razzista o la sinistra di cui parlano certi signori è una sinistra senza worker class ed essi sono intellettuali senza cervello. E’ un po’ come accadde quando la Lega si prese Sesto san Giovanni e altre tradizionali roccaforti operaie e “quelli di sinistra” seppero solo inveire contro il razzismo e la xenofobia di Bossi. 
Impegnati come erano a inseguire video datati e a cercare disperatamente le presunte ed eventuali vittime dello “stupratore seriale” candidato alla Casa Bianca, molti si sono lasciati sfuggire che costui rassicurava e galvanizzava gli operai delle acciaierie, con il suo programma protezionistico, e gli abitanti delle aree minerarie, con la sua promessa di rilanciare il carbone, mettendo fine all’ecologismo ideologico di Obama, che la Clinton avrebbe invece continuato a seguire.

Il terzo e ultimo dato decisivo nella elezione di Trump è questo e riguarda il “voto popolare”, ossia la percentuale complessiva di voti, che tecnicamente non elegge il Presidente, ma che evidentemente è la base per aggiudicarsi i vari stati e quindi i grandi elettori: le donne, i neri, gli ispanici se ne sono caldamente infischiati della propaganda a lui ostile, spintasi fino a toni di linciaggio morale. I dati reali sono quelli che seguono. 
Per quanto riguarda gli afroamericani, occorre tener presente che essi votano sempre massicciamente il partito democratico. Se avessero creduto al “razzismo” di Trump le percentuali di voto ai democratici si sarebbero dovuto ulteriormente innalzare. E invece siamo passati dal 93% ottenuto da Obama all’88% della Clinton. E’ vero che a favore di Obama giocava evidentemente la sua stessa origine, ma è anche vero che il suo antagonista, Romney, non aveva certo ricevuto le stesse accuse di razzismo che hanno bersagliato Trump. Riguardo ai latinos, il discorso è analogo: Trump ha accresciuto i consensi in questa categoria, passando dal 27 al 29%. Circa un terzo degli ispanici non ha dato peso, quindi, alle battute così enfatizzate dai media su muri e messicani delinquenti. Il flop più clamoroso la campagna di stampa anti-Trump l’ha però subito nel campo delle donne: la maggioranza (52%) delle donne bianche ha votato per il maniaco sessista, machista, stupratore compulsivo!
L’elettorato, in sostanza, non si è affatto diviso come pensava e voleva il pensiero “politicamente corretto”, ma seconda linee di demarcazione di carattere socio-economico, innanzitutto, e poi anche geografico. Le donne, gli afroamericani e i latinos delle grandi città della East Coast e della California hanno certamente votato in larga parte la Clinton, ma le donne e i latinos – ed anche una certa percentuale di neri - della “rust belt”, degli stati del Sud, delle periferie urbane, delle comunità agrarie hanno in buona parte votato Trump. Gli anatemi dei liberal politicamente corretti sul razzismo, il sessismo e la xenofobia di Trump li hanno lasciati indifferenti, mentre hanno pesato la loro condizione economica, il fallimento dell’Obamacare, la delusione per la politica sociale dell’Amministrazione democratica, le prospettive future e anche l’immagine della Clinton come candidato dei “poteri forti”. I progressisti con la loro alterigia pensano ora che il voto di queste categorie a Trump sia stato irresponsabile, autolesionista, sia stato un voto di pancia, un voto irrazionale, dettato da paura e ignoranza. Si è trattato invece di un voto motivato e razionalissimo: it’s economy, stupid!”.
I “muri” protezionistici di ogni tipo evocati da Trump hanno incoraggiato molti a votarlo. Un punto cardine del programma di Trump – vedremo poi in che misura e con quali modalità questo programma sarà realizzato – sta proprio in un più rigido controllo dei movimenti internazionali di merci ed uomini, i quali ultimi, peraltro, se varcano le frontiere è solo perché sono ridotti a merci e come merci vengono “accolti”, cosa che Marx avrebbe subito  intuito, ma che l’odierna sinistra buonista fatica a realizzare. E gli operai, gli artigiani i piccoli imprenditori, i lavoratori autonomi, i disoccupati e i lavoratori dipendenti precari della “rust belt” e anche di altre aree geografiche hanno visto evidentemente in questo muro protezionistico una possibilità di difesa e di ricostruzione di un tessuto economico devastato dalla globalizzazione e dall’afflusso di merci estere e di immigrati. Qualcuno dovrebbe riflettere sul fatto che la retorica su “ponti” e “muri” non ha alcuna presa sulle classi popolari e che queste, se proprio devono scegliere, optano per i muri e non per i ponti, e non certo per razzismo e xenofobia ma per difendere i propri interessi e in molti casi  le proprie esigenze primarie di sussistenza.
La middle class, poi, chiede anche la fine di uno statalismo che gonfia gli apparati e i vincoli burocratici e accresce il prelievo fiscale, senza redistribuire ricchezza (un keynesismo al quale è rimasto solo il rovescio della medaglia), chiede, cioè, più stato sulla scena internazionale dell’economia globalizzata e meno stato sul palcoscenico interno, più stato sui mercati internazionali e meno stato sul mercato interno.
Riguardo agli immigrati, il buon senso popolare, quel sano istinto di cui parlava Edmund Burke, lungi dal lasciarsi andare a reazioni isterico-convulsive xenofobe, coglie ciò che anche i liberal potrebbero capire, pur vivendo una condizione sociale ben diversa e privilegiata, se solo avessero letto un poco di Marx. Saprebbero e capirebbero allora che questi immigrati sono ciò che Marx definiva “esercito industriale di riserva”, una massa diseredata e non qualificata disposta o costretta a vendere per poco la propria forza lavoro e i propri diritti, utile quindi a comprimere salari e diritti della mano d’opera locale, del tutto funzionale agli interessi dei nuovi e vecchi ”padroni del vapore”, oggettivamente in conflitto con i lavoratori autoctoni. La “guerra fra poveri” non è affatto il delirio paranoico degli xenofobi: ancora una volta, “it’s economy, stupid!”
Ma la sinistra ha abbracciato invece sul tema immigrazione l’ideologia del politicamente corretto che rappresenta esattamente la copertura e il mascheramento degli interessi della globalizzazione capitalistica: un caso da manuale di stupidità.
Non è affatto sorprendente che donne e ispanics delle classi lavoratrici o medie, che invece stupidi non sono, se ne siano infischiati delle battute sessiste o xenofobe attribuite a Trump e abbiano badato al loro legittimo interesse e alla difesa dei loro più che legittimi diritti. La minaccia di costruire un “muro” alla frontiera con il Messico ha indignato i giovani della Columbia University, i divi del cinema e della musica rock, i poeti, gli scrittori e gli artisti di Manhattan, ma ha lasciato indifferenti tanti ispanics cittadini statunitensi. Anzi, forse li ha ulteriormente convinti a votare Trump, perché in fondo un rigoroso controllo del flusso di immigrati dal Messico e l’espulsione dei tanti immigrati illegali tornerebbe a loro profitto, anche se turberebbe i sonni dei residenti di Brooklyn e del Greenwich Village e ne avvelenerebbe le conversazioni nei cocktail-party.
Detto questo, è chiaro pure che Trump è riuscito a mobilitare efficacemente l’elettorato “bianco”, di origini anglosassoni e angloceltiche (ma anche di altre nazionalità europee, per esempio tedesche, come le sue: il nonno di Trump in origine si chiamava Drumpf), a suscitare una reazione d’orgoglio in questi cittadini che si ritengono, non certo infondatamente, i veri eredi dei pionieri che hanno costruito la nazione americana. Tuttavia, ciò non sarebbe bastato a farlo vincere e questo elemento dovrebbe piuttosto offrire materiale di riflessione ai progressisti e professionisti nostrani del “multiculti”. Essi rischiano di essere travolti, come e peggio della Clinton, dalla reazione dei “bianchi”, se si ostinano a provocarla, se continuano a bollare ogni critica alla loro fumosa e astrattissima idea di società multiculturale e a una scellerata politica dell’accoglienza indiscriminata, come si trattasse di una voglia di ku klux clan o di un isterismo islamofobo. Soprattutto in un paese come l’Italia, nel quale la percentuale di “bianchi” è ancora così predominante, rispetto ai casi, non dico degli USA, ma anche della Francia, della Germania o del Regno Unito. 
Le elezioni americane, quindi, ci parlano di Trump e dell’America, ma ci parlano anche della sinistra, di quella sinistra che continua a perdere – e quando vince, come ha fatto Obama, delude le aspettative che aveva suscitato – per un motivo semplicissimo: non capisce più il mondo e sconta un pauroso ritardo culturale direttamente proporzionale alle pretese, ormai del tutto infondate e persino ridicole, di superiorità intellettuale.
Il punto centrale – lo dico sommariamente in due parole – è che la sinistra, in tutte le sue articolazioni, non è stata capace di interpretare la crisi dei suoi tradizionali paradigmi di riferimento – quello comunista e quello socialdemocratico – non ha saputo elaborare un nuovo paradigma e nemmeno è riuscita ad aggiornare quelli antichi (cosa possibile, a mio avviso, con il paradigma socialdemocratico o meglio liberal-socialista, non con quello comunista, ma questa è una mia opinione o forse solo una propensione), si è scelta come compito quello di limare un po’ gli artigli della belva – la globalizzazione finanziaria – e ha adottato una ideologia del “politicamente corretto” – la più miseramente mistificante fra le ideologie, che sono sempre di per sé mistificanti -  che ha finito per alienarle definitivamente le classi lavoratrici e le classi medie, perché questa ideologia è funzionale agli interessi e agli scopi della belva e non certo a quelli delle classi suddette. Peraltro, quelle unghie non vengono neanche limate – e resterebbero comunque mortali – ma solo imbellettate con un poco di smalto.
L’elettorato di Trump, invece, esprime – per ora solo virtualmente, è chiaro – un blocco sociale che unisce tutte le categorie che pagano il prezzo della globalizzazione finanziaria e che la retorica del “politicamente corretto” non basta più ad ammansire. Se Trump saprà circondarsi di validi consiglieri, se saprà qualificare la sua Amministrazione con persone dotate non solo di competenze ma di visione, la sfida possibile sarà quella di disegnare un nuovo grande progetto politico che offra un’alternativa ad un sistema economico come quello attuale che dissangua lavoro e imprese produttive a favore della rendita finanziaria. Le incognite sono molteplici e sono molto serie: la nuova Amministrazione potrebbe semplicemente non essere all’altezza di una missione così alta e impegnativa, la politica reale di Trump potrebbe rivelarsi l’espressione di un altro pezzo dell’establishment, rispetto a quello che sosteneva la Clinton, di altri settori dei “poteri forti”… Ma è nata perlomeno una speranza e non è poco.

Alcuni amici mi hanno chiesto come diavolo avessi fatto a prevedere una vittoria di Trump. Ho risposto che ho cercato solo di ragionare su alcuni dati, su alcuni elementi di analisi che una minima conoscenza della realtà americana rendeva visibili al di là della rappresentazione mistificante che si stava dando della vicenda elettorale. Tuttavia, devo confessare che questi elementi non mi rendevano affatto certo dell’esito finale e la verità è che, a prescindere da essi, è da un preciso momento che sono stato sicuro che Trump avrebbe vinto.
A un certo punto, la Clinton ha definito i sostenitori del suo antagonista “a basket of deplorables”, una cesta di miserabili, grosso modo. Ho poi letto che i sostenitori di Trump avevano fatto proprio l’epiteto ingiurioso, avevano cominciato a rivendicarlo fieramente, a definirsi “the deplorables”, a firmarsi “i miserabili”. E’ successo parecchie volte nel corso della storia che coloro che erano stati insultati con un certo epiteto o nomignolo lo abbiano fatto proprio orgogliosamente, trasformandolo in una sorta di vessillo, in una tromba di guerra. Per esempio, i nobili e i mercanti olandesi protestanti ingiuriati dalla reggente Margherita d’Austria, sorellastra del re di Spagna, e dal suo seguito di altezzosi nobili castigliani con l’appellativo di gueux – pezzenti. Quei nobili e quei mercanti si appropriarono dell’epiteto, incominciarono una rivoluzione, la prima rivoluzione dell’età moderna, che fu detta proprio la “rivolta dei pezzenti”; anni dopo le loro piccole e agili navi – i “pezzenti del mare” – contribuirono al disastro della Invincible Armada e alla salvezza dell’Inghilterra protestante, senza le quali cose non ci sarebbe stata la spedizione della Mayflower, non ci sarebbe stato il Thanksgiving day, non ci sarebbe stata più tardi la dichiarazione di Indipendenza e la rivoluzione contro la Madrepatria, non ci sarebbe stata la Costituzione e l’America non sarebbe nata o almeno avrebbe avuto una storia completamente diversa. 
Ecco, quando ho sentito che i sostenitori di Trump facevano proprio l’epiteto ingiurioso della Clinton ho capito che era l’America autentica che si stava mobilitando, perché quei deplorables ne incarnavano lo spirito fondativo, a prescindere da Trump e ben oltre Trump. Lo spirito di coloro che rovesciando a mare il carico di tè di una nave inglese, per protesta contro la relativa imposta, dettero il segnale di inizio della Rivoluzione americana. Ho capito che non bisognava guardare il dito con la sua unghia più o meno smozzicata e sporca – ossia Trump – come invece facevano e purtroppo continuano a fare tanti, ma ciò che il dito indicava: la luna, la grande nazione americana. Che come ogni grande nazione si serve anche di uomini piccoli, di uomini senza qualità, di uomini “inadeguati”, li pone al suo servizio e li trasforma, per i propri scopi, per la propria salvezza, per costruire o ritrovare la propria grandezza. Ho capito che Trump avrebbe vinto, perché oltre il dito storto c’era la luna, perché dietro di lui e con lui si era risvegliata la Nazione americana, calpestata materialmente dalla globalizzazione finanziaria e dileggiata moralmente dal politicamente corretto di Obama, trattata davvero per anni come “un cesto di miserabili”. E che quella Nazione l’avrebbe fatta pagare cara alla Clinton e ai democratici, ai tromboni del politicamente corretto, tornando forse a splendere come “la città sulla montagna” (Mt., 5, 14), accendendo forse una luce nella notte anche per noi altri, che stiamo da quest’altra parte dell’Oceano. 
E’ almeno una speranza, uno squarcio nella coltre di tenebre e per questo noi oggi alziamo la nostra voce, sperando che giunga, colma di gratitudine, fino al grande popolo americano, per questo  cantiamo e preghiamo, noi, i “deplorables” della vecchia Europa:
God bless America,
land that I love,
stand beside her
and guide her,
through the night,
with a light from above.

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