Progressisti sull’orlo
di una crisi di nervi: ecco il titolo più scontato, ma esatto, per descrivere
le reazioni di tutto un mondo liberal e di sedicente e autoproclamata sinistra
dopo il Trump triumphs (è il titolo
con il quale il “New York Times” ha incominciato a elaborare la propria solenne
figuraccia). Un mondo che si era costruito questa rappresentazione della sfida
per le Presidenziali: da una parte, una candidata progressista, tollerante,
“inclusiva”, competente – certo per alcuni troppo moderata e quindi avrebbero
preferito l’autoproclamatosi socialista Sanders; dall’altra, una caricatura
vivente, un irresponsabile, un “inadeguato”, razzista, xenofobo, sessista,
addirittura fascista e persino antisemita (a dispetto della figlia prediletta
Ivanka, sua vice nell’impero economico, sposata a un ebreo ortodosso e lei
stessa, a quanto pare, convertita all’ebraismo, a dispetto anche delle sue
dichiarazioni filo-israeliane). La partita sarebbe stata tra una sinistra
moderata, ma pur sempre sinistra, e la destra più pericolosa; questo almeno pensavano
coloro il cui pensiero politico si riduce ad appiccicare poche, convenzionali
etichette adesive a personaggi e fenomeni. Trump, certo, avrebbe potuto
raccogliere un po’ di consensi, soprattutto quelli dei maschi bianchi poco
istruiti, esacerbati dalla crisi, incapaci di leggerne le cause e quindi
portati a scegliersi come bersagli gli ispanici, i musulmani, insomma quelli
più poveri di loro; i maschi bianchi, ignoranti, sessisti e razzisti come lui,
i piccoli Trump del Midwest e del Sud; il “white trash”, come i radical-chic
spocchiosi chiamano questa categoria di statunitensi, senza che poi nessuno li
accusi di razzismo e intolleranza. Ma la Clinton, da parte sua, avrebbe avuto
un plebiscito di voti tra i neri, i latinos,
le donne, che mai e poi mai avrebbero potuto votare Trump. Ergo, il risultato
era segnato.
La metamorfosi di certi
volti e di certe espressioni, durante la lunga notte televisiva del 9 novembre,
man mano che giungevano i risultati dall’Ohio, dalla Florida, dal North
Carolina, dal Michigan, dal Wisconsin, dalla Pennsylvania, è stato uno
spettacolo tanto entusiasmante da rendere inutili i thermos di caffè (confesso
che mi ero perfino munito di una tavoletta di cioccolato fondente al caffè
arabica, una roba quasi da radical-chic, ahimè…)
Diamine – sembravano
pensare i liberal de noantri– ma quanti maschi bianchi e analfabeti ci sono in
questa dannatissima America? Invece di approfittarne per guarire dalla
“trumpofobia”, per provare a fare una sana autocritica, rispettando il voto
popolare e cercando di abbozzarne una qualche analisi decente, hanno continuato
sulla stessa catastrofica linea. Un vertice di comicità è stato raggiunto da uno
dei commentatori che, sondaggi alla
mano, si era preparato ad esultare per la intangibile vittoria di Hillary; per
costui, a cose fatte, la notizia del giorno non sembrava essere la vittoria di
Trump, ma la sua prossima, scontata, certissima sconfitta fra quattro anni:
“Come valuta questo risultato?”, gli chiedevano dallo studio, “Penso che Trump
non potrà mai ottenere il secondo mandato…” Un genio.
Nelle ore successive, tutta
una teoria di analisti politici, improvvisati o di lungo corso, da Andy Luotto
a Furio Colombo, tutta una schiera di personaggi che al massimo nella loro vita
si saranno candidati, e senza successo, ad amministratori del proprio
condominio, si sono ostinati a spiegarci che aveva prevalso il voto dei meno
colti, la pancia contro il cervello, pretendendo pure di dare lezioni di
democrazia agli americani…Certo, hanno dovuto tener conto del fatto che quella
barzelletta vivente era inopinatamente diventato il Presidente della massima
potenza mondiale, ma non gli è stato difficile aggiustare il tiro: hanno potuto
attingere al vasto repertorio sedimentatosi in un ventennio di
antiberlusconismo di maniera e così li abbiamo visti con la bava alla bocca
vomitare epiteti tipo: “è un imbroglione, un corrotto, un evasore fiscale, un
personaggio volgare”. Ah, se almeno la Casa Bianca fosse sotto la giurisdizione
della procura di Milano, sembravano pensare… Si sono detti sicuri che però
Trump avrà vita breve e lo condanneranno le sue “cene eleganti”, sicché
inciamperà in qualche nipote di Mubarak, magari incontrata sul lettone di
Putin…Inutile ricordare a simili menti ottuse che con questi sofisticati
argomenti e questi efficacissimi metodi di lotta politica il fenomeno
Berlusconi è durato un ventennio. Trump potrà durare solo quattro anni, ma se
la candidatura da opporgli sarà quella di cui si comincia a parlare in questi
giorni, ossia Michelle Obama, allora ha serie possibilità di vincere al lascia
o raddoppia della Casa Bianca e restarci 8 anni. Noto, en passant, che questi liberal
difensori della dignità delle donne contro il maniaco sessista sembra che non
riescano a pensare a una donna candidato che non sia “la moglie di”. Una forma
di sessismo mascherato, direi,
Lasciamoli perdere, per
ora, e proviamo invece a interpretare la scelta del popolo americano e la
vittoria per molti inaspettata di Trump.
Il
primo dato decisivo è che Trump ha conservato gli stati tradizionalmente
repubblicani. Non era scontato, visto che se il
personaggio non può certo essere considerato un outsider in assoluto, lo è tuttavia nel partito repubblicano. Il
Texas, ad esempio, lo ha tenuto agevolmente nonostante l’ostilità dei Bush. E
ha trionfato, letteralmente trionfato, in tutti gli stati della “Bible belt” e
tra gli “evangelical”, che non sono i protestanti delle chiese e delle
denominazioni storiche - orientati non massicciamente ma comunque
prevalentemente verso la Clinton (metodista, si dice) - ma sono gli evangelici
delle chiese libere o pentecostali e dei cristiani “re-born” (come George W. Bush).
Qui si è rivelato un
altro catastrofico equivoco dei progressisti nostrani che, a dispetto delle
loro pretese di superiorità intellettuale, sono profondamente ignoranti quando
si tratta dell’elemento cristiano che è fondante della società americana e
continua ad essere decisivo in un paese che resta molto lontano da una
“secolarizzazione” di tipo europeo (la quale ha raggiunto solo la fascia
sociale medio-alta del New England, delle grandi città della East Coast o della
California). Hanno creduto che Trump, per il suo “sessismo”, per la sua vita
coniugale così movimentata, avrebbe perduto consensi tra questi elettori. E
invece ne ha ricevuti più di tutti i candidati repubblicani recenti,
raggiungendo i livelli di George W. Bush.
E il “puritanesimo” di questa America dove è mai finito, si sono chiesti sconcertati i nostri ignorantissimi progressisti? Purtroppo, essi scambiano la mentalità puritana, che è una cosa molto seria da Cromwell ai Padri fondatori degli USA, e il costume di vita certamente severo di questi evangelical, con quel moralismo bigotto da strapazzo, che caratterizza invece loro stessi, i progressisti nostrani; un moralismo mascherato dietro la tolleranza liberal (tolleranza per chi la pensa come loro, non per chi la pensa diversamente che viene subito bollato con marchio d’infamia), un moralismo che è quello del politically correct, dell’ossessione per l’islamofobia, di certo post-femminismo alla Boldrini, dei gay pride, e che quindi ha idoli e demoni talora rovesciati rispetto a quelli tradizionali, ma è pur sempre schietto, bigottissimo moralismo piccolo-borghese.
E il “puritanesimo” di questa America dove è mai finito, si sono chiesti sconcertati i nostri ignorantissimi progressisti? Purtroppo, essi scambiano la mentalità puritana, che è una cosa molto seria da Cromwell ai Padri fondatori degli USA, e il costume di vita certamente severo di questi evangelical, con quel moralismo bigotto da strapazzo, che caratterizza invece loro stessi, i progressisti nostrani; un moralismo mascherato dietro la tolleranza liberal (tolleranza per chi la pensa come loro, non per chi la pensa diversamente che viene subito bollato con marchio d’infamia), un moralismo che è quello del politically correct, dell’ossessione per l’islamofobia, di certo post-femminismo alla Boldrini, dei gay pride, e che quindi ha idoli e demoni talora rovesciati rispetto a quelli tradizionali, ma è pur sempre schietto, bigottissimo moralismo piccolo-borghese.
Certo, il candidato ideale
di queste chiese e di questi cittadini evangelici era Cruz e quello di ripiego
sarebbe stato Rubio. Alla fine hanno però accettato Trump, accontentandosi dei
segnali che egli ha mandato loro (tra cui l’adesione alla chiesa presbiteriana
e le parole di rammarico per il famoso video “sessista” di alcuni anni orsono,
ma soprattutto la scelta di Pence, come suo vice, un conservative che rappresenta una garanzia per gli evangelical). Trump non è stato certo
accolto come uno di loro – come invece era accaduto al “cristiano rinato” George
W. Bush - ma non ha ricevuto alcun anatema moralistico.
Non si capisce questo atteggiamento se non si intende correttamente l’autentico spirito protestante, che certamente riconosce e condanna il peccato, ma non il peccatore – tutti lo siamo nell’ottica calvinista – purché egli si riconosca e si confessi come tale e dia qualche segno tangibile di essere sulla lunga, difficile e tormentata strada della “santificazione” (il termine in un paese cattolico-controriformistico come il nostro suscita, però, altri catastrofici equivoci e anche quello di “conversione” viene frainteso, dunque parliamo pure di una vita parzialmente rinnovata secondo un costume più cristiano). Chi fornisce questi segni, magari venendo da una vita “dissoluta”, è visto se possibile con favore ancora più grande rispetto a chi – in modo autentico o no – si sia sempre mostrato un buon cristiano; e fu questo il caso del già citato George W. Bush, ex-alcolista. Il puritanesimo non chiede al credente una vita sessuale integerrima – anche se certo auspica una vita sessuale “ordinata” – e il termine puritano non ha nulla a che fare, né sul piano etimologico e della sua origine storica (“puritano” nel Cinquecento era chi voleva “purificare” la chiesa anglicana dai residui “papisti”, ossia cattolici), né sul piano semantico sostanziale, con la “pruderie sessuale” – ma chiede piuttosto una coerenza di fondo tra ciò che si pensa, ciò che si dice e ciò che si fa: per questo, Trump che ammette di aver trovato il modo per pagare meno tasse possibili in modo da risollevare le sue imprese non suscita alcun problema ed anzi viene apprezzato dai “puritani” d’America (mentre i moralisti di casa nostra lo vorrebbero in galera come evasore fiscale, facendo finta di non sapere che se avesse infranto qualche legge in materia fiscale in galera negli USA ci finirebbe senz’altro, perché gli USA su questo non scherzano affatto); essi considerano invece gravissimo l’atteggiamento della Clinton che ha cercato di nascondere l’uso di server privati per le mail che mandava e riceveva come Segretario di Stato.
Non si capisce questo atteggiamento se non si intende correttamente l’autentico spirito protestante, che certamente riconosce e condanna il peccato, ma non il peccatore – tutti lo siamo nell’ottica calvinista – purché egli si riconosca e si confessi come tale e dia qualche segno tangibile di essere sulla lunga, difficile e tormentata strada della “santificazione” (il termine in un paese cattolico-controriformistico come il nostro suscita, però, altri catastrofici equivoci e anche quello di “conversione” viene frainteso, dunque parliamo pure di una vita parzialmente rinnovata secondo un costume più cristiano). Chi fornisce questi segni, magari venendo da una vita “dissoluta”, è visto se possibile con favore ancora più grande rispetto a chi – in modo autentico o no – si sia sempre mostrato un buon cristiano; e fu questo il caso del già citato George W. Bush, ex-alcolista. Il puritanesimo non chiede al credente una vita sessuale integerrima – anche se certo auspica una vita sessuale “ordinata” – e il termine puritano non ha nulla a che fare, né sul piano etimologico e della sua origine storica (“puritano” nel Cinquecento era chi voleva “purificare” la chiesa anglicana dai residui “papisti”, ossia cattolici), né sul piano semantico sostanziale, con la “pruderie sessuale” – ma chiede piuttosto una coerenza di fondo tra ciò che si pensa, ciò che si dice e ciò che si fa: per questo, Trump che ammette di aver trovato il modo per pagare meno tasse possibili in modo da risollevare le sue imprese non suscita alcun problema ed anzi viene apprezzato dai “puritani” d’America (mentre i moralisti di casa nostra lo vorrebbero in galera come evasore fiscale, facendo finta di non sapere che se avesse infranto qualche legge in materia fiscale in galera negli USA ci finirebbe senz’altro, perché gli USA su questo non scherzano affatto); essi considerano invece gravissimo l’atteggiamento della Clinton che ha cercato di nascondere l’uso di server privati per le mail che mandava e riceveva come Segretario di Stato.
Certamente, gli
ambienti evangelical chiedono di
essere rassicurati su questioni come l’aborto, i matrimoni gay e le teorie
gender (ricordiamo la recente e grottesca imposizione dei gabinetti “gender”)
ed è dunque assai difficile che possano mai votare per un democratico
politicamente corretto. Ma anche questo è sfuggito ai sondaggisti,
professionali o improvvisati.
Il
secondo dato decisivo nella vittoria di Trump è questo: egli è riuscito a
strappare alla Clinton una serie di stati tradizionalmente o tendenzialmente
democratici. Questi stati sono quelli della
cosiddetta “rust belt” (“cintura della ruggine), gli stati del Nord-Est,
della regione dei grandi laghi e del Mid-West settentrionale, gli stati delle
grandi industrie fordiste e delle miniere, con tutto il relativo indotto,
realtà ormai da tempo in declino economico. Trump non solo ha tenuto la West
Virginia e si è aggiudicato l’Ohio – da oltre un secolo stato cruciale nelle
elezioni presidenziali – ma ha sorprendentemente prevalso non in uno soltanto
(era questo il timore della Clinton) ma addirittura in tre importantissimi
“swing states” (stati in bilico) di quest’area: Pennsylvania, Michigan e
Wisconsin. E questo è il paradosso della rappresentazione di maniera che lo ha
accompagnato: la Clinton, candidata moderatamente di “sinistra” viene
appoggiata dai mercati finanziari e dall’establishment anche economico, ma non
viene votata dai “colletti blu”, dagli operai – e dai disoccupati, i
sottoccupati, i lavoratori precari - della “rust belt”, i quali invece votano
Trump. Allora o la worker class è
diventata fascista e razzista o la sinistra di cui parlano certi signori è una
sinistra senza worker class ed essi sono intellettuali senza cervello. E’
un po’ come accadde quando la Lega si prese Sesto san Giovanni e altre
tradizionali roccaforti operaie e “quelli di sinistra” seppero solo inveire
contro il razzismo e la xenofobia di Bossi.
Impegnati come erano a
inseguire video datati e a cercare disperatamente le presunte ed eventuali
vittime dello “stupratore seriale” candidato alla Casa Bianca, molti si sono
lasciati sfuggire che costui rassicurava e galvanizzava gli operai delle
acciaierie, con il suo programma protezionistico, e gli abitanti delle aree
minerarie, con la sua promessa di rilanciare il carbone, mettendo fine
all’ecologismo ideologico di Obama, che la Clinton avrebbe invece continuato a
seguire.
Il terzo e ultimo dato decisivo nella elezione di Trump è questo e
riguarda il “voto popolare”, ossia la percentuale complessiva di voti, che
tecnicamente non elegge il Presidente, ma che evidentemente è la base per
aggiudicarsi i vari stati e quindi i grandi elettori: le donne, i neri, gli ispanici se ne sono caldamente infischiati della
propaganda a lui ostile, spintasi fino a toni di linciaggio morale. I dati
reali sono quelli che seguono.
Per quanto riguarda gli afroamericani, occorre tener presente che essi votano sempre massicciamente il partito democratico. Se avessero creduto al “razzismo” di Trump le percentuali di voto ai democratici si sarebbero dovuto ulteriormente innalzare. E invece siamo passati dal 93% ottenuto da Obama all’88% della Clinton. E’ vero che a favore di Obama giocava evidentemente la sua stessa origine, ma è anche vero che il suo antagonista, Romney, non aveva certo ricevuto le stesse accuse di razzismo che hanno bersagliato Trump. Riguardo ai latinos, il discorso è analogo: Trump ha accresciuto i consensi in questa categoria, passando dal 27 al 29%. Circa un terzo degli ispanici non ha dato peso, quindi, alle battute così enfatizzate dai media su muri e messicani delinquenti. Il flop più clamoroso la campagna di stampa anti-Trump l’ha però subito nel campo delle donne: la maggioranza (52%) delle donne bianche ha votato per il maniaco sessista, machista, stupratore compulsivo!
Per quanto riguarda gli afroamericani, occorre tener presente che essi votano sempre massicciamente il partito democratico. Se avessero creduto al “razzismo” di Trump le percentuali di voto ai democratici si sarebbero dovuto ulteriormente innalzare. E invece siamo passati dal 93% ottenuto da Obama all’88% della Clinton. E’ vero che a favore di Obama giocava evidentemente la sua stessa origine, ma è anche vero che il suo antagonista, Romney, non aveva certo ricevuto le stesse accuse di razzismo che hanno bersagliato Trump. Riguardo ai latinos, il discorso è analogo: Trump ha accresciuto i consensi in questa categoria, passando dal 27 al 29%. Circa un terzo degli ispanici non ha dato peso, quindi, alle battute così enfatizzate dai media su muri e messicani delinquenti. Il flop più clamoroso la campagna di stampa anti-Trump l’ha però subito nel campo delle donne: la maggioranza (52%) delle donne bianche ha votato per il maniaco sessista, machista, stupratore compulsivo!
L’elettorato,
in sostanza, non si è affatto diviso come pensava e voleva il pensiero
“politicamente corretto”, ma seconda linee di demarcazione di carattere
socio-economico, innanzitutto, e poi anche geografico.
Le donne, gli afroamericani e i latinos
delle grandi città della East Coast e della California hanno certamente votato
in larga parte la Clinton, ma le donne e i latinos
– ed anche una certa percentuale di neri - della “rust belt”, degli stati del
Sud, delle periferie urbane, delle comunità agrarie hanno in buona parte votato
Trump. Gli anatemi dei liberal
politicamente corretti sul razzismo, il sessismo e la xenofobia di Trump li
hanno lasciati indifferenti, mentre hanno pesato la loro condizione economica,
il fallimento dell’Obamacare, la
delusione per la politica sociale dell’Amministrazione democratica, le
prospettive future e anche l’immagine della Clinton come candidato dei “poteri
forti”. I progressisti con la loro alterigia pensano ora che il voto di queste
categorie a Trump sia stato irresponsabile, autolesionista, sia stato un voto
di pancia, un voto irrazionale, dettato da paura e ignoranza. Si è trattato
invece di un voto motivato e razionalissimo: “it’s economy, stupid!”.
I “muri”
protezionistici di ogni tipo evocati da Trump hanno incoraggiato molti a
votarlo. Un punto cardine del programma di Trump – vedremo poi in che misura e
con quali modalità questo programma sarà realizzato – sta proprio in un più
rigido controllo dei movimenti internazionali di merci ed uomini, i quali
ultimi, peraltro, se varcano le frontiere è solo perché sono ridotti a merci e
come merci vengono “accolti”, cosa che Marx avrebbe subito intuito, ma che l’odierna sinistra buonista
fatica a realizzare. E gli operai, gli artigiani i piccoli imprenditori, i
lavoratori autonomi, i disoccupati e i lavoratori dipendenti precari della
“rust belt” e anche di altre aree geografiche hanno visto evidentemente in
questo muro protezionistico una possibilità di difesa e di ricostruzione di un
tessuto economico devastato dalla globalizzazione e dall’afflusso di merci estere
e di immigrati. Qualcuno dovrebbe
riflettere sul fatto che la retorica su “ponti” e “muri” non ha alcuna presa
sulle classi popolari e che queste, se proprio devono scegliere, optano per i
muri e non per i ponti, e non certo per razzismo e xenofobia ma per difendere i
propri interessi e in molti casi le
proprie esigenze primarie di sussistenza.
La middle class, poi, chiede anche la fine di uno statalismo che gonfia
gli apparati e i vincoli burocratici e accresce il prelievo fiscale, senza
redistribuire ricchezza (un keynesismo al quale è rimasto solo il rovescio
della medaglia), chiede, cioè, più stato
sulla scena internazionale dell’economia globalizzata e meno stato sul
palcoscenico interno, più stato sui mercati internazionali e meno stato sul
mercato interno.
Riguardo agli immigrati,
il buon senso popolare, quel sano istinto di cui parlava Edmund Burke, lungi
dal lasciarsi andare a reazioni isterico-convulsive xenofobe, coglie ciò che
anche i liberal potrebbero capire,
pur vivendo una condizione sociale ben diversa e privilegiata, se solo avessero
letto un poco di Marx. Saprebbero e capirebbero allora che questi immigrati sono ciò che Marx definiva “esercito industriale di
riserva”, una massa diseredata e non qualificata disposta o costretta a
vendere per poco la propria forza lavoro e i propri diritti, utile quindi a comprimere salari e diritti
della mano d’opera locale, del tutto funzionale agli interessi dei nuovi e
vecchi ”padroni del vapore”, oggettivamente
in conflitto con i lavoratori autoctoni. La “guerra fra poveri” non è
affatto il delirio paranoico degli xenofobi: ancora una volta, “it’s economy, stupid!”.
Ma
la sinistra ha abbracciato invece sul tema immigrazione l’ideologia del
politicamente corretto che rappresenta esattamente la copertura e il
mascheramento degli interessi della globalizzazione capitalistica: un caso da
manuale di stupidità.
Non è affatto sorprendente
che donne e ispanics delle classi
lavoratrici o medie, che invece stupidi non sono, se ne siano infischiati delle
battute sessiste o xenofobe attribuite a Trump e abbiano badato al loro
legittimo interesse e alla difesa dei loro più che legittimi diritti. La
minaccia di costruire un “muro” alla frontiera con il Messico ha indignato i
giovani della Columbia University, i divi del cinema e della musica rock, i
poeti, gli scrittori e gli artisti di Manhattan, ma ha lasciato indifferenti
tanti ispanics cittadini
statunitensi. Anzi, forse li ha ulteriormente convinti a votare Trump, perché
in fondo un rigoroso controllo del flusso di immigrati dal Messico e
l’espulsione dei tanti immigrati illegali tornerebbe a loro profitto, anche se
turberebbe i sonni dei residenti di Brooklyn e del Greenwich Village e ne
avvelenerebbe le conversazioni nei cocktail-party.
Detto questo, è chiaro
pure che Trump è riuscito a mobilitare
efficacemente l’elettorato “bianco”, di origini anglosassoni e angloceltiche
(ma anche di altre nazionalità europee, per esempio tedesche, come le sue: il nonno
di Trump in origine si chiamava Drumpf), a suscitare una reazione d’orgoglio in
questi cittadini che si ritengono, non certo infondatamente, i veri eredi dei
pionieri che hanno costruito la nazione americana. Tuttavia, ciò non sarebbe
bastato a farlo vincere e questo elemento dovrebbe piuttosto offrire materiale
di riflessione ai progressisti e professionisti nostrani del “multiculti”. Essi
rischiano di essere travolti, come e peggio della Clinton, dalla reazione dei
“bianchi”, se si ostinano a provocarla, se continuano a bollare ogni critica
alla loro fumosa e astrattissima idea di società multiculturale e a una
scellerata politica dell’accoglienza indiscriminata, come si trattasse di una
voglia di ku klux clan o di un isterismo islamofobo. Soprattutto in un paese
come l’Italia, nel quale la percentuale di “bianchi” è ancora così
predominante, rispetto ai casi, non dico degli USA, ma anche della Francia,
della Germania o del Regno Unito.
Le elezioni americane,
quindi, ci parlano di Trump e dell’America, ma ci parlano anche della sinistra,
di quella sinistra che continua a perdere – e quando vince, come ha fatto
Obama, delude le aspettative che aveva suscitato – per un motivo semplicissimo:
non capisce più il mondo e sconta un
pauroso ritardo culturale direttamente proporzionale alle pretese, ormai del
tutto infondate e persino ridicole, di superiorità intellettuale.
Il
punto centrale – lo dico sommariamente in due parole – è che la sinistra, in tutte le sue
articolazioni, non è stata capace di interpretare la crisi dei suoi
tradizionali paradigmi di riferimento – quello comunista e quello
socialdemocratico – non ha saputo elaborare un nuovo paradigma e nemmeno è
riuscita ad aggiornare quelli antichi (cosa possibile, a mio avviso, con il
paradigma socialdemocratico o meglio liberal-socialista, non con quello
comunista, ma questa è una mia opinione o forse solo una propensione), si è scelta come compito quello di limare
un po’ gli artigli della belva – la globalizzazione finanziaria – e ha adottato
una ideologia del “politicamente corretto” – la più miseramente
mistificante fra le ideologie, che sono sempre di per sé mistificanti -
che ha finito per alienarle definitivamente le classi lavoratrici e le
classi medie, perché questa ideologia è funzionale agli interessi e agli scopi
della belva e non certo a quelli delle classi suddette. Peraltro, quelle
unghie non vengono neanche limate – e resterebbero comunque mortali – ma solo
imbellettate con un poco di smalto.
L’elettorato
di Trump, invece, esprime – per ora solo virtualmente, è
chiaro – un blocco sociale che unisce
tutte le categorie che pagano il prezzo della globalizzazione finanziaria e che
la retorica del “politicamente corretto” non basta più ad ammansire. Se
Trump saprà circondarsi di validi consiglieri, se saprà qualificare la sua
Amministrazione con persone dotate non solo di competenze ma di visione, la
sfida possibile sarà quella di disegnare un
nuovo grande progetto politico che offra un’alternativa ad un sistema economico
come quello attuale che dissangua lavoro e imprese produttive a favore della
rendita finanziaria. Le incognite sono molteplici e sono molto serie: la
nuova Amministrazione potrebbe semplicemente non essere all’altezza di una
missione così alta e impegnativa, la politica reale di Trump potrebbe rivelarsi
l’espressione di un altro pezzo dell’establishment, rispetto a quello che
sosteneva la Clinton, di altri settori dei “poteri forti”… Ma è nata perlomeno una speranza e non è poco.
Alcuni amici mi hanno
chiesto come diavolo avessi fatto a prevedere una vittoria di Trump. Ho
risposto che ho cercato solo di ragionare su alcuni dati, su alcuni elementi di
analisi che una minima conoscenza della realtà americana rendeva visibili al di
là della rappresentazione mistificante che si stava dando della vicenda elettorale.
Tuttavia, devo confessare che questi elementi non mi rendevano affatto certo
dell’esito finale e la verità è che, a prescindere da essi, è da un preciso
momento che sono stato sicuro che Trump avrebbe vinto.
A un certo punto, la
Clinton ha definito i sostenitori del suo antagonista “a basket of
deplorables”, una cesta di miserabili, grosso modo. Ho poi letto che i
sostenitori di Trump avevano fatto proprio l’epiteto ingiurioso, avevano
cominciato a rivendicarlo fieramente, a definirsi “the deplorables”, a firmarsi “i miserabili”. E’ successo parecchie
volte nel corso della storia che coloro che erano stati insultati con un certo
epiteto o nomignolo lo abbiano fatto proprio orgogliosamente, trasformandolo in
una sorta di vessillo, in una tromba di guerra. Per esempio, i nobili e i
mercanti olandesi protestanti ingiuriati dalla reggente Margherita d’Austria,
sorellastra del re di Spagna, e dal suo seguito di altezzosi nobili castigliani
con l’appellativo di gueux – pezzenti.
Quei nobili e quei mercanti si appropriarono dell’epiteto, incominciarono una
rivoluzione, la prima rivoluzione dell’età moderna, che fu detta proprio la
“rivolta dei pezzenti”; anni dopo le loro piccole e agili navi – i “pezzenti
del mare” – contribuirono al disastro della Invincible
Armada e alla salvezza dell’Inghilterra protestante, senza le quali cose
non ci sarebbe stata la spedizione della Mayflower,
non ci sarebbe stato il Thanksgiving day,
non ci sarebbe stata più tardi la dichiarazione di Indipendenza e la rivoluzione
contro la Madrepatria, non ci sarebbe stata la Costituzione e l’America non
sarebbe nata o almeno avrebbe avuto una storia completamente diversa.
Ecco,
quando ho sentito che i sostenitori di Trump facevano proprio l’epiteto
ingiurioso della Clinton ho capito che era l’America autentica che si stava
mobilitando, perché quei deplorables
ne incarnavano lo spirito fondativo, a prescindere da Trump e ben oltre Trump.
Lo spirito di coloro che rovesciando a mare il carico di tè di una nave
inglese, per protesta contro la relativa imposta, dettero il segnale di inizio
della Rivoluzione americana. Ho capito che non bisognava guardare il dito con
la sua unghia più o meno smozzicata e sporca – ossia Trump – come invece
facevano e purtroppo continuano a fare tanti, ma ciò che il dito indicava: la
luna, la grande nazione americana. Che
come ogni grande nazione si serve anche di uomini piccoli, di uomini senza
qualità, di uomini “inadeguati”, li pone al suo servizio e li trasforma, per i
propri scopi, per la propria salvezza, per costruire o ritrovare la propria
grandezza. Ho capito che Trump avrebbe vinto, perché oltre il dito storto
c’era la luna, perché dietro di lui e con lui si era risvegliata la Nazione
americana, calpestata materialmente dalla globalizzazione finanziaria e
dileggiata moralmente dal politicamente corretto di Obama, trattata davvero per
anni come “un cesto di miserabili”. E
che quella Nazione l’avrebbe fatta pagare cara alla Clinton e ai democratici,
ai tromboni del politicamente corretto, tornando forse a splendere come “la
città sulla montagna” (Mt., 5, 14), accendendo forse una luce nella notte anche
per noi altri, che stiamo da quest’altra parte dell’Oceano.
E’ almeno una speranza,
uno squarcio nella coltre di tenebre e per
questo noi oggi alziamo la nostra voce, sperando che giunga, colma di
gratitudine, fino al grande popolo americano, per questo cantiamo e preghiamo, noi, i “deplorables”
della vecchia Europa:
God bless America,
land that I love,
stand beside her
and guide her,
through the night,
with a light from above.
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